mercoledì 13 febbraio 2013

I vecchi media crollano. E noi?

di PIERLUIGI SULLO
Dice una persona che conosco e che fa il manager di una multinazionale dell’editoria: “I giornalisti hanno poco da protestare: più del 90 per cento degli incassi dei nostri periodici viene dalla pubblicità, le vendite in edicola sono un fatto trascurabile”. Esita, ci pensa su, e aggiunge: “Già, ma quanto potrà durare?”. Potrà durare poco: non si vede perché un inserzionista di grosso calibro dovrebbe continuare a buttare soldi su periodici che – per quanto lussuosi siano – vendono in edicola una frazione minima di quel che vendevano un tempo.
E’ in corso una estinzione di massa di giornali di carta stampata: l’annuncio di Rcs – 800 esuberi tra il personale in Italia e in Europa, la storica sede milanese del Corriere della Sera in vendita, dieci testate periodiche da vendere o da chiudere – è la sanzione definitiva del disastro. Chi ha avuto nei mesi scorsi la voglia di leggere “L’esplosione del giornalismo”, il libro di Ignacio Ramonet che DKm0 ha pubblicato con Intra Moenia (http://www.democraziakmzero.org/2012/10/11/lesplosione-del-giornalismo/), conosceva nel dettaglio quel che stava accadendo, e quanto si sarebbe aggravata la malattia della carta stampata. Anche se il libro parla poco dell’Italia, il fenomeno è mondiale, e capirlo aiuterebbe a orientarsi, in questa tempesta. Ma i giornalisti italiani sono troppo occupati a difendere i loro residui bunker, per altro invano, per chiedersi cos’altro potrebbero fare. Di fatto, non si sono nemmeno resi conto che la crescita abnorme del precariato, nel lavoro giornalistico, non tutelava affatto il loro recinto contrattuale: al contrario lo assediava, al punto che, come accade ora a Rcs, i Fort Apache del vecchio mestiere alla fine sono stati espugnati.
L’ondata è troppo violenta. Dipende dalla crisi economica, ovviamente, che spinge i lettori sempre più lontano dalle edicole, ma dipende soprattutto da Internet, sebbene in Italia si sia fatto di tutto – buttando soldi per finanziare non le cooperative di giornalisti, che hanno avuto le briciole, ma i grandi gruppi editoriali, e foraggiando invenzioni a favore di Mediaset (Berlusconi) come il digitale terrestre tv – per rallentare la crescita della banda larga, cioè dell’uso della Rete. I 600 milioni circa che costerebbe “coprire” tutto il territorio con un segnale internet decente, sono meno soldi di quelli che si vogliono spendere per fare un buco per terra inutile in Val Clarea, antipasto della Tav in Val di Susa. Solo degli idioti, o dei lestofanti, possono stabilire – e far rispettare a mano armata – una priorità di questo tipo.
Nel frattempo, la carta stampata affonda comunque. Il solo Corriere della Sera metterà fuori una sessantina di giornalisti. Altri ne aveva liquidati nel recente passato. Ma una situazione simile subiscono i dipendenti del Sole 24 Ore e della Repubblica e del Messaggero (sono i più grandi quotidiani italiani), mentre la stessa esistenza de La Stampa è in questione: potrebbe diventare un supplemento piemontese del Corriere della Sera (la Fiat compare nella proprietà di entrambi i giornali).
E certo, come dice il comitato di redazione (l’organismo sindacale) del Corriere, si erano avviati grandi progetti multimediali (sito internet, edizioni per iPad e cellulari, web tv), che ora la proprietà si rifiuta di finanziare con un aumento di capitale, e anzi sceglie la via dell’”austerità”, appunto: ma nessuno ha ancora ben capito come far soldi con internet.
Fa anche un po’ tenerezza, leggere nel comunicato sindacale del Corriere, che mettendo in vendita il palazzo di via Solferino si cancellano “con un grossolano gesto contabile più di 100 anni di storia, il simbolo più importante della libertà di stampa in questo paese, un pezzo unico e irripetibile del patrimonio culturale italiano”. Fa effetto anche a me, che da studente della Statale di Milano, negli anni dopo il ’68, andavo periodicamente a protestare davanti alla sede del Corriere per le menzogne che scriveva sul movimento. Però, avessero una coscienza, quei giornalisti si chiederebbero quanti altri pezzi di storia (di società, di cultura…) il governo Monti ha cancellato “con un grossolano gesto contabile”, essendo Monti prima un editorialista di quel giornale e poi il miglior presidente del consiglio possibile, secondo il Corriere della Sera.
Ma quel che è più interessante è che il tradizionale – e insopportabile – lamento “di sinistra” sulla cattiveria del grandi media può finalmente essere archiviato. Perchè la Rete è una grande prateria, dove si può cavalcare con mezzi a basso o bassissimo costo. Questo terremoto, che cambia geografie e gerarchie, mezzi e modi della comunicazione, e quindi lo stesso mestiere di giornalista, sarebbe una grande opportunità, per la società che ri-costruisce democrazia altrove. Se volesse essere ambiziosa. Se scegliesse la virtù della cooperazione invece del vizio della concorrenza. Se imparasse a comunicare – e a interloquire – con le comunità e i cittadini in un modo certo differente da quello della vecchia “stampa di sinistra”, anch’essa ormai estinta o quasi, ma rigoroso, con un linguaggio amichevole, con l’aspirazione – come ci siamo detti in un workshop nella pisana “United colors of commons”, al Municipio dei beni comuni – a diventare autorevole, cioè credibile, accurata, non settaria. Nella Rete la concorrenza non esiste, non vale più il “sono arrivato primo”, perché i lettori, ormai attivi, circolano liberamente ovunque, e dunque scambiare testi, materiali, analisi, tra i “luoghi” virtuali della neo-democrazia, avvantaggerebbe tutti. Di fronte, appunto, a un sistema dei grandi media che sta crollando rapidamente. E poi, quant’è più interessante fare il giornalista in questo mondo nuovo invece che ripetere vecchie abitudini.

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