sabato 31 marzo 2012

Calearo: «In Parlamento non vado ma con lo stipendio mi pago il mutuo»

Massimo Calearo (Scrobogna/LaPresse)
«La mia Porsche? Targa slovacca, così scalo tutte le spese»

«Due gay che si baciano? Mi fa schifo, io sono normale»




MILANO - La Porsche "nascosta" al fisco? No, è solo immatricolata in Slovacchia. Lo stipendio da parlamentare? Per pagare il mutuo, anche se in parlamento non ci si va più. Premere il pulsante per votare? È usurante. Parola di Massimo Calearo, deputato di Popolo e Territorio, ex Pd e Api: «Dall'inizio dell'anno alla Camera sono andato solo tre volte, anche per motivi familiari. Rimango a casa a fare l'imprenditore, invece che andare a premere un pulsante. Non serve a niente. Anzi, credo che da questo momento fino alla fine della legislatura non ci andrò più».

L'USURA - L'onorevole è stato intervistato dalla trasmissione La Zanzara su Radio 24 e ha spiegato che la sua presa di posizione risale al cambio di governo: «Fino a novembre mi sono divertito a fare il consulente di Berlusconi sul commercio estero, ora non servo più. È usurante andare alla Camera solo a premere un pulsante». C'è sempre la strada delle dimissioni, per evitare un lavoro usurante, e il tornare a occuparsi del'azienda di famiglia con fabbriche in Slovacchia e in Tunisia che produce antenne per auto e non solo, e che distribuisce in esclusiva per l'Italia grandi marchi di sistemi di navigazione gps. Ma Calearo non ci pensa nemmeno: «Perché al posto mio entrerebbe uno del Pd molto di sinistra, un filo-castrista (Andrea Colasio, ndr). Con lo stipendio da parlamentare pago il mutuo della casa che ho comprato, 12mila euro al mese di mutuo. È una casa molto grande...». E poi c'è l'auto: «La mia Porsche è targata slovacca, l'ho comprata lì perché ho un'attività in quel paese con 250 dipendenti. È tutto perfettamente in regola. E poi in Slovacchia si possono scaricare tutte le spese per la vettura. In Italia no».
Segue su  www.corriere.it

venerdì 30 marzo 2012

FUKUSHIMA: RADIAZIONI COSÌ ALTE DA UCCIDERE UN UOMO IN 7 MINUTI

Il reattore 2 raggiunge i 72 Sievert l'ora. Le moderne strumentazioni non sono più in grado di misurare il livello di radiazioni

All'interno del reattore 2 della centrale diFukushima, le radiazioni hanno raggiunto i 72 Sieverts l'ora (nove mesi fa erano 4). Sieverts, non microSieverts, un livello di radiazioni tale da uccidere un uomo in appena 7 minuti. 
La notizia più preoccupante, è che i tecnici non dispongono degli strumenti adatti per effettuare queste misurazioni. Le radiazioni hanno raggiunto livelli così elevati che è necessario implementare nuova tecnologia per poterle monitorare. All'interno del reattore le condizioni sono così estreme che le attrezzature a disposizione non durano più di poche ore prima di rompersi. 
A questo dobbiamo aggiungere il fatto che fauna e flora sono ormai irrimediabilmente contaminati. Come scriveGreenreport.it: "pesci e germogli di bambù sono contaminati dal cesio radioattivo." Una situazione davvero drammatica. 



Fukushima Daiichi: dov'è finito il nocciolo del reattore nr.2?

Qualche conto non torna nella Centrale nucleare di Fukushima Daiichi dove sembra sia ancora in atto l’incidente nucleare scatenatosi dopo il terremoto e lo tsunami dell’11 marzo 2011. Radiazioni elevate e assenza di acqua fanno presagire uno scenario sconosciuto: lasindrome cinese, ossia la temuta perdita di combustibile nucleare nell’ambiente.
I livelli di radiazione all’interno del reattore nr.2 sembrano essere divenuti incontrollabili. Neanche i robot della serie Quince progettati dall’ingegnere Eyiki Koyanagi sono in grado di lavorare per più di 3 ore in un ambiente estremamente radioattivo, pari a 73 Sieverts/h, come si legge su Japan Times. Spiega Tepco:
L’esposizione a 73 Sieverts/h per un minuto porta nausea e dopo 7 minuti la morte nel giro di 1 mese.
Ma all’interno del reattore si è verificata una condizione pericolosissima: praticamente l’assenza di acqua. Infatti, dopo il tentativo fallito del 19 gennaio 2012 per cercare di misurare il livello dell’acqua nel recinto del reattore n ° 2, Tepco ha fatto un secondo tentativo qualche giorno fa, che ha avuto successo. Ma le notizie sono pessime: l’acqua di raffreddamento giunge fino a 60 cm e non nei 3 mt. previsti.
Tepco inietta attualmente 9 tonnellate di acqua all’ora nel reattore, pari a 2,5 litri al secondo. Dove va a finire questa acqua? Scorre nella piscina, probabilmente nel ring, poi si perde nel fondo fratturato e non si sa quanta ne sia recuperata. Non è esattamente quel ciclo chiuso che viene descritto.
Perciò in che condizioni si trova il trova il nocciolo o corium? La temperatura rilevata nel contenimento lascia supporre che non debba essere più la. Secondo Gen4:
La verità è che il nocciolo ha già perforato il contenitore del reattore RPV, il contenitore primario PCV e secondario in cemento armato o una variante di un anello di controllo e il contenuto è finito da qualche parte sotto il suolo.
E ‘anche possibile che il corion, sia passato nella piscina provocando un’esplosione con vapore e non un esplosione di idrogeno. Questa ipotesi è stata vagliata anche dall’IRSN che sostiene che l’esplosione nel ring della piscina del reattore nr.2 non sia stata di idrogeno. Spiega Pierre Fetet sul suo Le blog de Fukushima:
Tepco, a cui non piace raccontare come stanno le cose nega categoricamente questa esplosione, e dunque l’eventualità dio una perdita in natura del nucleo, fatto che non è mai accaduto e che rientra nello scenario peggiore.

martedì 27 marzo 2012

Succede in val di susa....volantini a scuola e ti sospendono !


A Susa la scorsa settimana è successo qualcosa di molto particolare, presso l’Itis, istituto tecnico medio superiore, gli studenti no tav hanno distribuito dei volantini nelle classi. I medesimi volantini  veniva in contemporanea distribuiti dal movimento al mercato della cittadina, in quella che è una importanete e costante opera di informazione praticata da anni. A Susa inoltre hanno sede due ditte a dir poco particolari, di cui abbiano narrato la storia a più riprese, si tratta della ditta Italcoge e della ditta Martina. Entrambe le ditte, oltre ad essere fallite e misteriosamente risorte più volte sono state scelte da LTF (Lyon Turin Ferroviare general contractor Torino Lione) per allestire le recinzioni a filo spinato e muri del cantiere di Chiomonte. Entrambe poi, e non è poco sono state coinvolte dall’inchiesta Minotauro della procura torinese sull’infiltrazione della ndrangheta al nord. Se da sempre il movimento no tav dice tav=mafia non è solo per le tesi del procuratore Fernando Imposimato o per le esperienze degli altri cantieri italiani ma per una triste esperienza diretta, fatta di queste inchieste locali ma anche di presidi bruciati, macchine bruciate, lettere minatorie con proiettili di cui però la magistratura sembra non interessarsi.
Queste cose difficilmente vengono raccontate dai quotidiani e dai tg, scomode, che sfiorano interessi troppo grandi, ecco perché allora diventa fondamentale un’informazione libera, fatta di articoli, lettere, cronache sul web e anche e soprattutto volantinaggi, nei mercati, nei cortei e anche nelle scuole. In queste scuole ed in particolare in quella di Susa studia anche uno dei figli di questi imprenditori che ricevuto il volantino con il nome del papà è tornato a casa e queste le parole del padre in un’intervista al quotidiano LaStampa “Mio figlio è tornato a casa abbastanza scosso, finora avevo sempre tenuto un profilo basso. Ma questa volta non potevo lasciare correre…”. Cosa ci si aspetta da un padre in questa situazione? Che provi a spiegare la situazione al figlio? Che si penta magari scoprendo che ha dei figli ed è una vergogna quello che sta facendo? Se fosse un buon padre certo ma se è un mafioso come si legge sui volantini o meglio sulle inchieste e nei tribunali ecco che da tale si comporta e alza immediatamente il telefono minacciando il preside della scuola. Preside che vede il suo istituto querelato e decide da subito di diventare alleato del signor Martina proponendo per i ragazzi individuati come autori del volantinaggio una punizione esemplare, una settimana di sospensione dalle attività didattiche. Ieri il consiglio di istituto ha bocciato la proposta del preside che ancora una volta si è ritrovato solo e schierato a difesa, lo diciamo anche noi della mafia. I professori hanno difeso i ragazzi, loro evidentemente non hanno tornaconti o se non un precario stipendio, il preside, dalla sua poltrona di manager ha forse troppo da perdere a schierarsi. I ragazzi invece si difendono da soli e con i loro collettivi si stanno preparando a rilanciare l’iniziativa, anche questi episodi aiutano e fanno crescere, come si usa dire “fanno scuola”. In ultimo una tiratina d’orecchie al concetto e alla teoria dell’antimafia la dobbiamo fare. Troppo spesso nelle scuole, nelle conferenze viene raccontata l’antimafia come concetto astratto, teoria, conferenze, grandi discorsi. Qui si parla di pratica, si parla di episodi che sono antimafia nella sua essenza più vera. Avere il coraggio di urlare un modo mafioso di fare affari, denunciare a gran voce quanto accade, in maniera pubblica davanti a tutti, mettendoci la faccia, urlare i nomi e scriverli. Dire che il tav è mafia e le ditte coinvolte sono mafiose è vero ed è giusto (basta leggere del comportamento del sig. Martina in questa vicenda per capirlo). L’invito che facciamo a tutte le associazioni antimafia è quello di schierarsi con i giovani notav. E’ molto importante la possibilità che danno ai ragazzi di fare grandi e pacifici cortei come quello di Genova di Libera, di poche settimane fa in cui tutti gridano forte No alla Mafia! E’ altrettanto importante il lavoro e la possibilità che danno ai giovani riconvertire in buoni frutti e buone semine i terreni sequestrati ai mafiosi. Ora però questi ragazzi non vanno lasciati soli, vanno aiutati e sostenuti per il loro coraggio e la loro determinazione. Nel modo più diretto e semplice hanno fatto antimafia dal basso, hanno fatto ciò che ritenevano giusto. Per noi e per tutti è il momento di schierarsi, di sostenerli, di aiutarli.

Tratto da www.notav.info

lunedì 26 marzo 2012

LA LAVATRICE CHE LAVA SENZ'ACQUA? ECCOLA - FOTO

Si chiama Orbit  ed è stata creata dal designer Elie Ahovi per l'azienda Electrolux. Ecco come funziona 

E' una piccola lavatrice portatile battezzata con il nome di Orbit. Ha una particolarità: non richiede di essere collegata alla rete idrica. Infatti, Orbit non utilizza acqua, ma ghiaccio secco. 

L'idea è del designer Elie Ahovi che ha progettato questo modello, ancora in fase sperimentale, per Electrolux . Questa lavatrice potrebbe rappresentare una soluzione ecologica in quanto non necessita di acqua né di detersivi. 

Come riporta il sito TuttoGreen.it  Orbit "sfrutta una reazione chimica del biossido di carbonio (più noto come ghiaccio secco) che altro non è che anidrirde carbonica allo stato solido. Ad una certa pressione sublima in forma gassosa e il getto, ad altissima velocità, provoca l'eliminazione dello sporco dagli indumenti. Dopo aver esaurito il suo potere pulente il gas si ritrasforma in ghiaccio secco per numerosi altri utilizzi." 

La piccola lavatrice, viene alimentata da una batteria circolare al cui interno è collocato il cestello. Ed è proprio la batteria a generare il campo magnetico che sposta il cestello attirandolo a sé. Quando poi la resistenza cala, il cestello cade. Ed è proprio questo movimento che permette di lavare e asciugare il bucato. 

Se da una parte, il consumo di acqua e detersivi è azzerato, dall'altro c'è da valutare il consumo energetico per caricare la batteria e raffreddare il cestello al punto di ritrasformare il gas in ghiaccio secco.  

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venerdì 23 marzo 2012

Articolo18, il bluff della nuova riforma

monti fornero lp2 300x199 e1332462556778 Articolo18, il bluff della nuova riforma 
La riforma del Lavoro è fatta, bisognerà leggerla attentamente, visto che nemmeno i sindacati sembrano certi di tutti i punti toccati nel verbale redatto dal governo ma, a parte questo, lo scenario sembra chiaro. Sulle questioni principali – vedi articolo 18 – Monti non lascia spazio a dubbi: la trattativa e’ chiusa. Il testo passerà in Parlamento e il governo dovrà scegliere in quale strumento legislativo inquadrare il provvedimento. Probabilmente una legge delega, anche se Pdl e Confindustria sperano in un decreto e dicono no a un disegno di legge che porterebbe allo stravolgimento del testo.
Come promesso, il governo andrà avanti anche senza la totale condivisione delle parti sociali. Si rammarica della contrarietà della Cgil, ma ribadisce: “nessuno ha potere di veto”. Ora, quindi, tocca a Camera e Senato, dopodiché si vedrà come e quanto uscirà cambiata la riforma.
Tra i partiti il malessere più profondo è nel Pd. I patti non erano questi è la frase ripetuta dalla segreteria. E prende corpo il timore di essere caduti in un tranello dell’esecutivo, teso a spaccare i democratici per costruire una maggioranza futura fatta solo di centro e di destra. Il modello tedesco è stato accantonato dal governo che ha puntato su una riforma del lavoro con minori tutele ai lavoratori assunti stabilmente.
Per trovare una sintesi delle varie posizioni interne al partito, Bersani si deve destreggiare tra gli ostacoli. Sa di non poter lasciare il governo Monti in mano a Pdl e Terzo polo, almeno non ora che l’esecutivo gode di un forte consenso e dell’appoggio continuo e incondizionato del Quirinale, con Napolitano preoccupato di evitare il naufragio dell’esecutivo tecnico sullo scoglio più aguzzo.
Allo stesso tempo, però, se non vuole spaccarsi in due, il Pd non può mollare la Cgil, che da subito si è opposta alla riforma, in questo pungolata a sinistra dalla Fiom molto critica verso i vertici di Corso d’Italia. Martedì sera, alla Zanzara su Radio24, uno dei leader massimi dei metalmeccanici, Giorgio Cremaschi, era stato molto chiaro. All’ironia di David Parenzo su un possibile biennio rosso che vedrà la Fiom scendere di continuo in piazza, Cremaschi ha suggerito di non mettere limiti temporali.
Appare chiaro come il futuro di quella che da tutti è considerata la riforma delle riforme del governo tecnico – il vessillo da esibire all’estero come simbolo di un superamento dei blocchi storici insiti nel Paese, con la Fornero novella Lady di ferro contrapposta ai sindacati – sarà contrassegnato dallo scontro sociale. E con i chiari di luna che si prospettano per la nostra economia c’è poco da scherzare. Una riforma del lavoro contestata – in un Paese senza crescita, con una disoccupazione che ha superato i livelli di guardia e una recessione amplificata da politiche restrittive, tasse e imposte indirette sempre crescenti – risulterà dura da digerire.
La questione ruota tutta attorno alle modifiche all’articolo 18, che, con buona pace dei precari, di questa riforma è il cuore e il vero motivo. E’ sulle tre tipologie di licenziamento che si concentra l’attenzione di governo, parti sociali e forze politiche.
La riforma non è solo questo, si sente ripetere da più parti. A fronte della nuova impostazione dell’articolo 18, però, anche le novità più significative finiscono inevitabilmente in secondo piano.
Come sarà possibile licenziare? I licenziamenti saranno nulli se discriminatori e questo varrà anche per le aziende con meno di 15 dipendenti. Il governo cerca di far passare come una novità ciò che novità non è. Anche per le aziende più piccole, infatti, non si può licenziare un lavoratore per motivi discriminatori. È ovvio, però, che in un’azienda di poche persone, chiunque, se discriminato, di solito preferisce andarsene, magari con una buonuscita.
Per quanto riguarda i licenziamenti per motivi economici (causa oggettiva), invece, non ci sarà reintegro del lavoratore, ma solo un indennizzo.
Mentre nel licenziamento per motivi disciplinari spetterà al giudice stabilire se reintegrare il lavoratore o concedere una buonuscita in denaro.
La Cgil non ci sta e attacca una riforma che, secondo il sindacato, ha il solo scopo di rendere facile licenziare. Camusso – che deve gestire il fronte interno aperto dalla Fiom, molto critica dopo l’affermazione pro Tav del segretario – ha detto chiaramente che con la riforma il governo ha gettato la maschera e mostrato il vero intento: liberalizzare i licenziamenti. E annuncia le prime 16 ore di sciopero generale. Fallita la trattativa si apre la fase della mobilitazione.
Susanna Camusso, parla di un annullamento del potere deterrente dell’articolo 18 su licenziamenti disciplinari ed economici.
Nel primo caso, perchè la nullità del licenziamento non dispone il reintegro automatico del lavoratore, ma lo pone di fronte alla possibilità di accettare denaro per un licenziamento avvenuto per una mancanza disciplinare che – se presuppone un indennizzo – di fatto non esiste. Nel secondo, ancora più importante, cessa la possibilità del reintegro: il lavoratore è definitivamente fuori, con un indennizzo che va da un minimo di 15 a un massimo di 27 mensilita’. Il timore della Cgil è che tra i licenziamenti per motivi economici confluiranno tutti i casi di licenziamento.
In altre parole, sia il lavoratore licenziato per cause disciplinari che per motivi discriminatori (la discriminazione, vale la pena ricordarlo, deve essere dimostrata sempre e comunque dal lavoratore), verrà licenziato adducendo motivazioni economiche in modo da scongiurarne il reintegro.
Un punto va specificato bene. Anche prima si poteva licenziare per motivi economici, ma il giudice, a fronte di una crisi aziendale non dimostrata nei fatti, imponeva il reintegro del lavoratore. Ora, questo non è più possibile, quindi l’uscita del lavoratore dall’azienda è certa e senza appello. Il magistrato deciderà unicamente della durata dell’indennizzo, che va da un minimo di 15 a un massimo di 27 mensilità dell’ultima retribuzione percepita. È un cambiamento che da solo scardina completamente l’articolo 18. E contro il quale, anche se a scoppio ritardato, hanno mosso prima la Uil e ora anche la Cisl.
Ma anche dalla Cei arriva una critica forte: la riforma messa così fa paura, i lavoratori non possono essere trattati come merce da dismettere a piacimento., affermano i vescovi. Perché questo punto in particolare sia così importante è chiaro: se passa la modifica, il licenziamento lo deciderà l’impresa, in autonomia e con l’unico deterrente di un maggiore esborso economico.
Per essere ancora più chiari, significa dire che d’ora in poi in Italia si potrà licenziare nonostante l’articolo 18. Dopo tanti tentativi, si tratterebbe della prima falla aperta nel muro eretto a tutela del posto fisso con lo Statuto del ’70. Se la modifica uscirà confermata dal Parlamento, il mercato italiano del lavoro cambierà soprattutto in uscita.
Anche senza toccare gli statali, a cui – nonostante le sentenze della Cassazione affermino che l’articolo 18 vale per tutti i lavoratori – l’esecutivo assicura che non si applicheranno le modifiche, potremmo avere nel prossimo futuro una forte crescita dei posti di lavoro persi. E in conferenza stampa anche Monti, sia pure indirettamente, ha parlato delle nuove possibilità di licenziamento offerte alle imprese. Il sistema italiano secondo il presidente del Consiglio, da adesso è un sistema moderno, al pari degli altri Paesi Ue. Cosa significa? Le aziende “non hanno più scuse” per non assumere, ha detto il premier.
Ma mentre le assunzioni rimangono una speranza tutta da verificare, al contrario, i licenziamenti appaiono come una delle poche certezze del prossimo futuro. Comunque vada, la frase del presidente del Consiglio, da sola, sconfessa la motivazione ripetuta per giorni a spron battuto: aiutare i precari e i giovani disoccupati. Ad essere aiutate, invece, sembrano essere le aziende a cui la riforma da’ mano libera.
La Confindustria fa sapere che in linea di massima il documento è accettabile. In realtà, sebbene, non manchi chi storce la bocca sulle rigidità imposte alle assunzioni, gli industriali scongiurano l’esecutivo dal tornare sui suoi passi. Al massimo, le imprese cercheranno di far pressione in Parlamento per una modifica dei costi da sostenere per l’indennizzo del lavoratore e per l’assunzione di precari. Confindustria, infatti, ritiene troppo lungo un periodo di indennizzo che arriva fino a 27 mesi e vorrebbe un massimo di 18 mesi come accade in Germania. Quel che conta per gli industriali, però, è che la riforma c’è e va nel senso auspicato.
Liquefattasi perché inesistente la contrapposizione tra tutelati e non tutelati – presentata come se al calare della protezione degli uni crescesse quella degli altri –, l’effetto della riforma sembra essere un abbassamento generalizzato delle tutele. L’averla presentata anche mediaticamente come un braccio di ferro sull’articolo 18, al dunque, si è dimostrato esatto. Anche se alcune novità possono produrre effetti potenziali sul mercato del lavoro, sono i licenziamenti il vero punto forte di una riforma che inciderà per i prossimi dieci anni sulla nostra economia.
Secondo il ministro Fornero si tratta di una riforma buona, equilibrata e inclusiva. La professoressa spera che il Parlamento non la stravolga. Adesso tocca alla politica che dopo anni di indecisioni, dietrofront e annacquamento a favore della lobby di turno, si trova a decidere della riforma fatta dai tecnici.
 Il Pd ha già il sudore freddo. Per l’ennesima volta si teme la spaccatura tra l’anima più vicina al sindacato e quella più convinta di dover tenere in piedi il rapporto con l’esecutivo. Pdl e Terzo polo, intanto, cercano di non mostrare un malcelato entusiasmo per quanto accade e si preparano ad appoggiare le modifiche volute dalle imprese, che già minacciano di non assumere più nessuno.
 E per i precari che resta? Poco. Qualche tutela in più, potenzialmente utile e difficilmente esigibile. Tante speranze, molti dubbi sulle future assunzioni e il realismo con cui si accorgono di non essere ne’ ascoltati, ne’ rappresentati da nessuno, lasciati completamente ai margini del tavolo. Sarà che sono quasi tutti giovani, ma ricordano i bambini piccoli a cui non è concesso mettere bocca nelle cose serie.
In realtà i precari hanno anche una certezza. La loro sorte senza vie d’uscita, ancora una volta, è stata presa in prestito come la scusa più giusta per fare tutt’altro.

domenica 11 marzo 2012

Il Giappone pensa a un futuro senza nucleare

FUKUSHIMA. Dal nostro inviato
«Rivitalizzare Fukushima come condizione per rivitalizzare il Giappone»: alla prefettura della città-capoluogo della provincia che ospita la centrale nucleare della paura, viene anticipato così il messaggio che il governatore Yuhei Sato lancerà oggi nel corso della cerimonia locale per il primo anniversario dello tsunami. Alle 14.46 (le 6.46 ora italiana) il Giappone si ferma per un momento di silenzio triste, che però sarà seguito da incitamenti ufficiali alla riscossa (oltre che da manifestazioni di piazza). Li guiderà il premier Yoshihiko Noda, che al Teatro Nazionale di Tokyo affiancherà l'imperatore Akihito (ancora convalescente da una delicata operazione cardiaca), dopo aver affidato alle colonne online del Washington Post la notifica al mondo dell'impegno forse un po' troppo enfatico a costruire un «nuovo Giappone» determinato a raccogliere «una sfida storica». Messa nei termini del governatore Sato, però, la sfida è di quelle che appaiono ai limiti del possibile. La sua città e la sua provincia, loro malgrado, rischiano di drenare risorse senza evitare di fare da freno alle prospettive di rilancio del Paese. L'area evacuata di 20 chilometri intorno alla centrale, con propaggini fino a  30-40 a Nord-ovest, è ancora terra di nessuno: i confini saranno spostati un po' a macchia di leopardo, ma il ritorno di una piccola parte delle decine di migliaia di sfollati non cambierà lo stato comatoso di quei territori. La città-capoluogo ha perso l'atmosfera spettrale di un anno fa e dà qualche segnale di risveglio, ma i piani ufficiali di "rivitalizzazione" in 12 punti appaiono ingenui o fumosi, se non altro perché lo stigma del nome Fukushima non accenna a scolorirsi in una situazione che resta controversa. I "guastafeste" di Greenpeace segnalano ai giornalisti che, dai loro monitoraggi, i livelli di contaminazione radioattiva permangono alti in alcuni punti della città, in particolare nel sobborgo di Watari. «Chi voglia andarsene da qui dovrebbe avere piena assistenza e invece niente - tuona Kazue Suzuki, dirigente del'organizzazione ambientalista -. E sarebbe ora che venisse lanciato un piano nazionale di decontaminazione». Anche i funzionari della Croce Rossa giustificano le apprensioni di una parte della popolazione locale, mentre a Tokyo abbondano le casalinghe che comprano verdura accertandosi che provenga dal Sud o dall'Ovest. Così il bilancio di un anno si chiude nel più profondo rosso per la provincia sinonimo della catastrofe , mentre per il capoluogo del Tohoku, Sendai (provincia di Miyagi) molti parlano già di "boomtown": difficoltà a trovare manodopera per la ricostruzione, intasamenti di traffico e primi investimenti di operatori esteri (l'Ikea apre un grande centro commerciale, Amazon vi istituisce il suo call center), mentre l'interesse degli operatori economici per il delinearsi di future zone economiche speciali (deregulation e tassazione favorevole) si concentra proprio sulla provincia di Miyagi. Grazie alla crisi venuta da Fukushima, è sul punto di avverarsi - almeno temporaneamente - il sogno di persone come il premio Nobel Kenzaburo Oe - oggi tra la folla nello stadio di baseball della vicina Koriyama - o delle 317 personalità che dal parco di Hibiya a Tokyo lanceranno un appello anti-nucleare: a breve non ci sarà energia prodotta in Giappone da centrali atomiche. Solo due reattori funzionano – su 54 – ma anch'essi andranno presto in manutenzione. Il Governo sta cercando di far sì che un paio di altri reattori vengano riattivati a breve: vuole evitare che il Giappone sia "nuclear free" in estate, quando sarà annunciato il nuovo piano energetico nazionale, che sostituirà quello che contemplava l'aumento della quota di energia dall'atomo dal 30 al 50% in vent'anni. 
 Un piano che assegnerà comunque un ruolo, sia pure molto ridimensionato, al nucleare, evidenziando una rinnovata volontà di leadership nelle energie alternative. Occorrerà il consenso delle comunità locali per la riapertura delle centrali, cosa tutt'altro che scontata specialmente dopo che, proprio a ridosso dell'anniversario, è emersa una pioggia di rivelazioni su reticenze, incertezze e incompetenze nella gestione della fase acuta della crisi.

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Tratto da www.ilsole24ore.com

giovedì 8 marzo 2012

GIUDICE, BATTA UN COLPO


(alcuni termini scurrili in questo articolo riflettono la realtà ambientale)

Usate la testa. Se siete un Chief Assets Manager a PIMCO, o ancora peggio, a BNP Paribas, cioè uno di quei super falchi che avevano in mano miliardi di Euro di crediti verso lo Stato Greco e che oggi se ne trovano un buon 70% scomparso, puff… una nuvola di borotalco al posto di un tesoro, quanto siete incazzati da 1 a 100? Diciamo 3.000? A essere ottimisti. Bene. Ora sempre seri: questi signori sono stati tutto ieri al telefono a dirsi due sole cose: 



1) “E che cazzo succede se adesso anche il Portogallo, la Spagna, l’Irlanda e l’Italia dicono ‘Perché la Grecia se la cava con il mega sconto e noi no? Lo vogliamo anche noi lo sconto’. Ragazzi, non scherziamo, qui tirano l’universo giù per il cesso se succede una roba del genere.”

2) “Quegli stronzi dei greci c’hanno fottuto il 70% perché c’hanno infilato le CACs* nei titoli in scadenza, bastardi. E l’hanno potuto fare perché gli abbiamo lasciato troppo debito sotto le loro stronze leggi di merda. Che cazzo ha fatto il Consiglio Europeo il 26 ottobre? Non avevano trasferito il debito alla giurisdizione legale inglese? Chi ha controllato quanto ne avevano trasferito? Adesso salta fuori un misero 10% del cazzo! Merda! Ma siamo pazzi? Il Consiglio ha lasciato il 90% del debito di quegli straccioni sotto le loro leggi, principianti del cazzo!”


* CACs = Collective Action Clauses, cioè il Governo che ha emesso il debito e che è pressato dai creditori può passare una legislazione che ‘appiccica’ ai titoli in scadenza che devono essere rinegoziati (cioè ripagati con lo sconto) delle clausole che dicono: se un X% dei creditori accetta di accontentarsi di intascare il 30% di quanto gli dobbiamo, i rimanenti creditori sono obbligati ad accettare le perdite anche se non vogliono. Ma ovviamente se il debito non è più sotto giurisdizione legale nazionale, questa mossa diviene impossibile.

Dopo la sfuriata, la priorità dei mercati dei capitali è di evitare il contagio. Quindi gli uomini delle lobby finanziarie sono già in frenetica attività dal nostro Monti, e dai suoi omologhi Rajoy, Kenny e Coelho. E soprattutto devono scongiurare i CACs in Italia, Spagna, Irlanda e Portogallo. Ma qui sta la mina vagante, per noi. 

Monti è una garanzia, finché c’è lui a Palazzo Chigi l’Italia potrà rantolare nel sangue ma lo sconto sul debito alla greca non lo chiederà mai. Ok, qui i mercati sono tranquilli. Ma potrebbe fare un’altra cosa, micidiale. Potrebbe negoziare la rinuncia dell’Italia ai CACs, offrendo tutto il nostro debito in scadenza su un piatto d’argento alla giurisdizione legale inglese. Questo in cambio di uno sconticino del 20%. Giusto quel tanto che gli basta per comprare dai mercati quei 2 anni di tregua (prima della mazzata finale) che gli servono per finire la devastazione dei nostri diritti, e della nostra economia dei salari e produttiva. Sì, perché Draghi è alla canna del gas. Il suo tentativo di fare esattamente la stessa cosa non ha funzionato. Ha sborsato 1 trilione di Euro nelle riserve delle banche europee per evitare a tutti costi il default dell’Italia a gennaio, che ci avrebbe finalmente liberati da questa tortura che è l’Eurozona e quindi offerto la possibilità (teorica) di fermare la rapina del bene comune. Ma quella follia monetaria non ha comprato dai mercati sufficiente tempo. Draghi sa bene che i mercati sanno benissimo che il problema è strutturale, cioè l’Euro stesso, e fra 5 minuti torneranno alla carica riportando l’Italia in zona default. Ed ecco che allora Monti potrebbe fare quella mossa e con quella in effetti ottenere la tregua (e finire la strage qui).

Voi a casa leggerete su Repubblica (il peggio del peggio dei baciapile finanziari) titoli rassicuranti, “Cala lo spread”, “Interessi sul debito ai minimi dell’anno. Effetto Monti”, “Gli italiani dicono sì al Professore” ecc. Oh che speranza all’orizzonte… Bè, guardate bene all’orizzonte, li vedete quei titoli di Stato che valicano il Brennero e si tingono pian piano di rosso, bianco e blu? Svestono il tricolore e vestono la UnionJack sulla via del Tamigi. Ecco, bene, siamo fottuti. Perché il giorno in cui noi saremo ridotti alla greca, con gli italiani che vendono l'auto per scaldarsi in casa, noi non potremo neppure cavarcela con la boccata d'ossigeno (del tutto temporanea) della Grecia, e proprio soffocheremo lì, su due piedi.

Quindi occhio alle stanze del Tesoro a Roma nei prossimi mesi, qualcuno può andare a vedere cosa stanno bisbigliando là dentro? Magari qualche costituzionalista che sia sopravvissuto sano di mente a 15 anni di Travaglio e Di Pietro? C’è, mi sente? Batta un colpo.

Paolo Barnard
Fonte: http://paolobarnard.info
Link: http://paolobarnard.info/intervento_mostra_go.php?id=343

mercoledì 7 marzo 2012

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Le Grandi Opere sono un triangolo. Il primo vertice, il più evidente, è rappresentato daipartiti che le usano a fini di potere, per inserire i loro uomini ai posti di comando, creare lo spazio per il voto di scambio. Il secondo è la criminalità organizzata, in particolare la'ndrangheta che ha il monopolio del movimento terra. Al terzo vertice vi sono lecooperative rosse e bianche. Quelle del "Lavoro, lavoro, lavoro!", per dirla alla Fassinoo anche alla Fassina. Le cooperative garantiscono consenso e spartizione del potere. LaCMC di Ravenna è una di queste. "La Cooperativa Muratori e Cementisti - Cmc di Ravenna, azienda leader nel settore delle costruzioni che opera in Italia e nel mondo, è stata fondata a Ravenna nel 1901.". E' in ogni cementificazione importante in ambito nazionale. "La CMC è presente nei mercati delle grandi opere, dei lavori pubblici (grandi infrastrutture, edilizia pubblica, lavori portuali e marittimi), dei lavori ferroviari con particolare riguardo all’Alta Velocità, dei lavori privati (ipermercati, hotel, centri direzionali) e degli interventi edili e in infrastrutture nel territorio in cui ha sede e nel quale è impegnata ad assicurare presenza imprenditoriale e sociale".
Ovviamente la CMC è una delle principali società costruttrici della TAV in Val di Susa, non vede l'ora di traforare. E' responsabile nello sviluppo dell'autostrada infinita Salerno - Reggio Calabria. Sta costruendo la base militare americana (la più grande d'Europa) Dal Molin a Vicenza appaltata dallo US Government Em Department of the Navy per 242 milioni di euro, questo nonostante il parere contrario degli abitanti espresso anche attraverso un referendum cittadino. Si sa che a Beeèrsani i referendum fanno venire l'orticaria. La CMC è appaltatrice dei lavori dell'inutile Expo 2015 (come poteva mancare?). Dove c'è una Grande Opera, lì c'è CMC. Devono essere bravissimi per vincere così spesso e senza alcun supporto politico. Voglio fare domanda di assunzione. Il triangolo no, non è un problema.... Calce e martello con i soldi degli italiani. Così cresce il debito pubblico.


Tratto da www.beppegrillo.it

lunedì 5 marzo 2012

Ottimo articolo illuminante sulla tav


La Grande Opera pubblica e il capitalismo finanziario
di Guido Viale
4 / 3 / 2012
Quello in atto in Valle di Susa è un autentico «scontro di civiltà»: la manifestazione di due modi contrapposti e paradigmatici di concepire e di vivere i rapporti sociali, le relazioni con il territorio, l’attività economica, la cultura, il diritto, la politica. Per questo esso suscita tanta violenza da parte dello stato
I NUMERI DELLA TAV
Quello in atto in Valle di Susa è un autentico «scontro di civiltà»: la manifestazione di due modi contrapposti e paradigmatici di concepire e di vivere i rapporti sociali, le relazioni con il territorio, l’attività economica, la cultura, il diritto, la politica. Per questo esso suscita tanta violenza da parte dello stato – inaudita, per un contesto che ufficialmente non è in guerra – e tanta determinazione – inattesa, per chi non ne comprende la dinamica – da parte di un’intera comunità.
Quale che sia l’esito, a breve e sul lungo periodo, di questo confronto impari, è bene che tutte le persone di buona volontà si rendano conto della posta in gioco: può essere di grande aiuto per gli abitanti della Valle di Susa; ma soprattutto di grande aiuto per le battaglie di tutti noi.
Da una parte c’è una comunità, che non è certo il retaggio di un passato remoto, che si è andata consolidando nel corso di 23 anni di contrapposizione a un progetto distruttivo e insensato, dopo aver subito e sperimentato per i precedenti 10 anni gli effetti devastanti di un’altra Grande Opera: l’A32 Torino-Bardonecchia.
Gli ingredienti di questo nuovo modo di fare comunità sono molti. Innanzitutto la trasparenza, cioè l’informazione: puntuale, tempestiva, diffusa e soprattutto non menzognera, sulle caratteristiche del progetto. Un’informazione che non ha mai nascosto né distorto le tesi contrarie, ma anzi le ha divulgate (a differenza dei sostenitori del Tav), supportata da robuste analisi tecniche ed economiche: gli esperti firmatari di un appello al governo Monti perché receda dalle decisioni sul Tav Torino-Lione sono più di 360; significativo il fatto che un Governo di cosiddetti «tecnici» il parere dei tecnici veri non lo voglia neppure ascoltare. Poi c’è stata un’opera capillare di divulgazione con il passaparola – forse il più potente ed efficace degli strumenti di informazione – ma anche con scritti, col web (i siti del movimento sono molti e sempre aggiornati) e col sostegno di alcune radio; ma senza mai avere accesso – in 23 anni! – alla stampa e alle tv nazionali, se non per esserne denigrati.
Secondo, il confronto: il movimento non ha mai esitato a misurarsi con le tesi avverse: nei dibattiti pubblici – quando è stato possibile – nelle istituzioni; nelle campagne elettorali; nelle amministrazioni; nel finto «Osservatorio» messo in piedi dal precedente governo e diretto dall’architetto Virano, che non ha mai avuto il mandato di mettere in discussione l’opera ma solo quella di imporne comunque la realizzazione. Strana concezione della mediazione! La stessa del ministro Cancellieri: «Discutiamo; ma il progetto va comunque avanti». E di che si discute, allora? Grottesca poi – ma è solo l’ultimo episodio della serie – è la fuga congiunta da incontro con una delegazione del parlamento europeo del sindaco di Torino e dei presidenti di provincia e regione Piemonte il 10 febbraio scorso. Ma ne risentiremo parlare. Il terzo elemento è il conflitto: non avrebbe mai raggiunto una simile dimensione e determinazione se l’informazione non avesse avuto tanta profondità e diffusione. Ma sono le dure prove a cui è stata sottoposta la popolazione ad aver cementato tra tutti i membri della cittadinanza attiva della valle rapporti di fiducia reciproca così stretti e solidi.
Il quarto elemento è l’organizzazione, strumento fondamentale della partecipazione popolare: i presìdi, numerosi, sempre attivi e frequentati, nonostante le molteplici distruzioni di origine sia poliziesca che malavitosa; le frequenti manifestazioni; i blocchi stradali; le centinaia di dibattiti (non solo sul Tav; anzi, sempre di più su problemi di attualità politica e culturale nazionale e globale) che vedono sale affollate in paesi e cittadine di poche centinaia o poche migliaia di abitanti; la presentazione e il successo di molte liste civiche; la rete fittissima di contatti personali nella valle; il sostegno che il movimento ha saputo raccogliere e promuovere su tutto il territorio nazionale: Fiom, centri sociali, rete dei Comuni per i beni comuni, movimento degli studenti, associazioni civiche e ambientaliste, mondo della cultura, forze politiche (ma solo quelle extraparlamentari); ecc. La scorsa estate si è svolto a Bussoleno il primo convegno internazionale dei movimenti che si oppongono alle Grandi Opere, con la partecipazione di una decina di organizzazioni europee impegnate in battaglie analoghe: un momento di elaborazione sul ruolo di questi progetti nel funzionamento del capitalismo odierno e un contributo sostanziale alla comprensione del presente. Infine quel processo ha restituito peso e ruolo a un sentimento sociale (o «morale», come avrebbe detto Adam Smith) che è il cemento di ogni prospettiva di cambiamento: l’amore; per il proprio territorio, per i propri vicini, per il paese tutto; per i propri compagni di lotta e la propria storia; per le trasformazioni che questa lotta ha indotto in tutti e in ciascuno; persino per i propri avversari, anche i più violenti. Non a caso Marco Bruno, il manifestante NoTav messo alla berlina da stampa e televisioni nazionali per il dileggio di cui ha fatto oggetto un carabiniere in assetto di guerra (ma, come è ovvio, lo ha fatto per farlo riflettere sul ruolo odioso che lo Stato italiano gli ha assegnato) ha concluso il suo monologo con questa frase, registrata ma censurata: «comunque vi vogliamo bene lo stesso».
E i risultati? Rispetto all’obiettivo di bloccare quel progetto assurdo, zero. O, meglio, il ritardo di vent’anni (per ora) del suo avvio. Ma quella lotta ha prodotto e diffuso tra tutti gli abitanti della valle saperi importanti; un processo di acculturazione (basta sentire con quanta proprietà e capacità di affrontare questioni complesse si esprimono; e poi metterla a confronto con i vaniloqui dei politici e degli esperti che frequentano i talkshow); una riflessione collettiva sulle ragioni del proprio agire. Ha creato uno spazio pubblico di socialità e di confronto in ogni comune della valle. Ha permesso di rivitalizzare una parte importante delle proprie tradizioni. Ha unito giovani, adulti, anziani e bambini, donne – soprattutto – e uomini in attività condivise che non hanno uguale nelle società di oggi. Ha allargato gli orizzonti di tutti sul paese, sul mondo, sulla politica, sull’economia (altro che «nimby»! Il «Grande Cortile» della Valle di Susa ha spalancato porte e finestre sul mondo e sul futuro di tutti). Ha creato e consolidato una rete di collegamenti formidabile. Ha ridato senso alla politica, all’autogoverno, alla partecipazione: per lo meno a livello locale. Ha aiutato tutti a sentirsi più autonomi, più sicuri di sé, più cittadini di una società da rifondare. Infine, e non avrebbe potuto accadere che in un contesto come questo, ha messo in moto un movimento di gestione etica e ambientale delle imprese, riunite in un’associazione, «Etinomia», che conta in valle già 140 adesioni, e che rappresenta la dimostrazione pratica di come la riconquista di spazi pubblici autogestiti sia la condizione di un’autentica conversione ecologica.
E dall’altra parte? Schierati contro il movimento NoTav ci sono la cultura, l’economia, la metafisica e la violenza delle Grandi Opere: la forma di organizzazione più matura raggiunta (finora) del capitalismo finanziario: la «fabbrica» che non c’è più, divisa in strati e dispersa in miriadi di frantumi. Le caratteristiche di questo modello sociale, che ritroviamo tutte nel progetto Torino-Lione, sono state esemplarmente enucleate da Ivan Cicconi ne Il Libro nero dell’alta velocità (Koiné; 2011) e qui mi limito a richiamarle per sommi capi. La «Grande Opera» è innanzitutto un intervento completamente slegato dal territorio su cui insiste, indifferente alle sue sorti prima, durante e soprattutto dopo la fine dei lavori, quando, compiuti o incompiuti che siano, li abbandona lasciando dietro di sé il disastro. Non è importante che sia utile o redditizia. Col Tav Milano-Torino dovevano correre, su una linea dedicata ed esclusiva, 120 coppie di treni al giorno; ne passano 9: quasi sempre vuoti. L’importante è che la «Grande Opera» si faccia e che alla fine lo stato paghi. E’ una grande consumatrice di risorse a perdere: suolo, materiali, energia, denaro (ma non di lavoro, comunque temporaneo e per lo più precario, che a lavori conclusi viene abbandonato a se stesso insieme al territorio). Per questo ha bisogno di grandi società di gestione e di grandi finanziamenti, cioè del coinvolgimento diretto di banche e alta finanza (il ministro Corrado Passera ne sa qualcosa); non per assumersi l’onere della spesa, ma solo per fare da schermo temporaneo a un finanziamento che alla fine ricadrà sul bilancio pubblico E’ il modello del project financing , l’apogeo dell’economia finanziaria che ci ha portato alla crisi, inaugurato trent’anni fa dall’Eurotunnel sotto la Manica.
Quanto al Tav, le tratte Torino-Milano-Roma-Salerno dovevano essere finanziate almeno per metà dai privati; il loro costo, lievitato nel corso del tempo da 6 a 51 miliardi di euro (ma molti costi sono ancora sommersi e, una volta completate le tratte in progetto, supereranno i 100 miliardi) è stato interamente messo a carico dello Stato (cioè del debito pubblico). Ma per il Tav in Valle di Susa non si parla più di project financing : la fretta è tale che si dà inizio ai lavori senza sapere dove prendere i soldi. Si aspettano quelli dell’UE, che forse non verranno mai, spacciando questa attesa per un impegno «imposto dall’Europa». Ma perché quei costi sono quattro volte quelli di tratte equivalenti in Francia o in Spagna? E’ il «Grande Segreto» delle nostre «Grandi Opere»: il subappalto. Le Ferrovie dello stato hanno affidato – in house , cioè senza gara – la realizzazione dell’intero progetto a Tav Spa, sua filiazione diretta. TavSpa, sempre senza gara, ha affidato il progetto a tre General contractor (le tre maggiori società italiane all’epoca: 1991), tra cui Fiat. Fiat ha fatto il progetto della Torino-Milano e ne ha affidato la realizzazione a un consorzio della sua – allora – controllata Impregilo (quella dei rifiuti in Campania e del disastro ambientale in Mugello). Impregilo ha diviso i lavori in lotti e li ha affidati, senza gara, a una serie di consorzi di cui lei stessa è capofila; e questi hanno affidato a loro volta le forniture e le attività operative a una miriade di ditte minori, attraverso cui hanno fatto il loro ingresso nella «Grande Opera» sia il lavoro nero che la ‘ndrangheta: la stessa, ben insediata a Bardonecchia, che da tempo aspetta l’inizio dei lavori sulla Torino-Lione e ha già ampiamente contrattato (vedi l’inchiesta giudiziaria Minotauro) il voto di scambio con i principali partiti della Regione. I lavori che all’ultima ditta della catena vengono pagati 10 Fiat li fattura a TavSpA a 100. La differenza è l’intermediazione dei diversi anelli della catena, tra cui non mancano partiti e amministrazioni locali. Ecco che cos’è la «crescita» affidata alle «Grandi Opere». Ed ecco perché per imporre una soluzione del genere occorre occupare militarmente il territorio. E perché ci vuole un Governo «tecnico». Così Monti è il benvenuto.
Tratto da:
Il Manifesto 4 marzo 2012