giovedì 6 ottobre 2011

"Ricordarsi che moriremo è il modo migliore che conosco per evitare le trappola di pensare di avere qualcosa da perdere. Siete già nudi. Non c’è nessun motivo per non seguire il vostro cuore"


Steve Jobs è morto. E sono tante, forse troppe le voci dissonanti che arrivano da ogni parte del mondo.
Un turbinio di suoni in cui il cordoglio si mescola a commenti fuori luogo, agli improperi di chi sostiene che muore tanta gente e nessuno se ne accorge, oppure semplicemente che chi se ne frega, o ancora che Apple ignora i suicidi degli operai nelle sue fabbriche in Cina (se consideriamo Steve Jobs il loro diretto assassino -e non il meschino sistema che tutti alimentiamo comprando, vendendo, lavorando, studiando, vivendo all’interno del sistema…- chi compra abiti cuciti da dodicenni “cinesi” dovrebbe essere considerato altrettanto colpevole. Parliamone…) o -ancora- che si dovrebbe pensare a tutte le vittime del cancro, che anche basta con la commemorazione di uno che vendeva dispositivi costosissimi… e ancora parole, parole, parole. Tutto pur di sentirsi fuori da questa massa di adoratori privi di senso critico che da ore vanno seguendo il virtuale carro funebre che scorre sulle bacheche del mondo intero.
La morte nell’epoca del web 2.0 diventa un fenomeno di totale partecipazione, un’isteria collettiva, un enorme abbraccio virtuale. Dove l’eccesso -in ogni senso- regna sovrano e si perde ogni senso della misura, del pudore, della composta accettazione di un evento che, comunque accada, ha un’unica causa: la mortalità stessa dell’essere umano.
Le cure mediche, la sicurezza, l’attenzione a non dei farsi nemici non sono che strategie posticipatorie. Non esiste cura per la morte, ma questo non ci salva dal viverla in maniera partecipata e drammatica, come fosse una tragedia. Sempre. La difficoltà ad accettare la perdita fa parte della nostra umanità. La morte di un personaggio noto, geniale,  che ha scolpito con maestria la sua immagine  nell’immaginario collettivo(chiunque egli sia stato nel privato e qualunque errore abbia commesso) provoca sgomento. Di cosa ci si stupisce, esattamente?
Certo, il fatto di aver avuto l’occasione di mostrare e dare valore al suo talento (occasione che non a tutti i talentuosi viene concessa…) non lo rende più degno di commozione di chi muore sotto le macerie lavorando, a nero, per 3.95 euro l’ora, anzi, ma questo cosa significa? La celebrazione dei cosiddetti working class heros dovrebbe avvenire ogni giorno, ma non è evitando di onorare Jobs che si onorano i lavoratori che precipitano, in silenzio, dalle impalcature. A cosa serve sottolineare l’ovvio? È davvero necessario o serve soltanto a nutrire la vanità di chi ama pontificare sentendosi costantemente al di fuori della massa che bela beata e ignorante?
Chi ha conosciuto e stimato l’ex CEO ha il diritto di piangerlo a voce alta, di ricordare le sue parole e pubblicizzare il proprio dolore come meglio crede. C’era davvero bisogno che lo dicessi? A quanto pare, sì.
Personalmente -lo ammetto- non sono una Apple-addicted.  Sono, ovviamente, un’appassionata di tecnologia ma non possiedo dispositivi Apple e i miei favori non sono mai andati all’azienda di Cupertino. Non ho in camera una riproduzione di Steve Jobs in scala 1:1 verso cui genuflettermi ogni sera e mi auguro non ce l’abbia nessuno.
Che Jobs non sia dio non credo sia necessario ricordarlo, ma da qui a non tributargli i doverosi onori ce ne passa.
Lo ha detto Steve Wozniak (uno degli uomini che insieme a Jobs fondò la Apple in un garage, per poi trasformarla in un colosso mondiale con la sola forza delle idee e l’intraprendenza) e voglio ripeterlo anch’io: la morte di Jobs è come quella di Lennon, di JFK, di Lady Diana, di Stanley Kubrick, di Albert Einstein, o di chiunque sia stato in grado di rivoluzionare il mondo in cui viveva. È epocale. E arriva in un momento storico in cui potrebbe davvero diventare uno spartiacque culturale. Non ci sarebbe nulla di folle se, da oggi, la storia della tecnologia venisse spaccata in un prima di Jobs e dopo Jobs. E non perché gli si debbano assegnare caratteristiche cristologiche o -in generale- divine (spero ci si guardi bene dal farlo…) ma perché con la sua morte si chiude un ciclo che, a meno di non volerlo santificare, sarà impossibile portare avanti.
Toccherà rinascere. Sotto altro segno.  Nessuno potrà mai inserirsi nella sua scia, gli uomini come Jobs muoiono senza eredi, l’unico che potrà sostituirlo sarà -per forza di cose- la sua nemesi. I padri si uccidono sempre.
D’altronde, Jobs aveva analizzato nel profondo il senso ultimo della mortalità, tanto che (nel celebre discorso all’Università di Stanford che vi trascrivo in versione integrale in coda all’articolo) ebbe a dire: ”Ricordarsi che moriremo è il modo migliore che conosco per evitare le trappola di pensare di avere qualcosa da perdere. Siete già nudi. Non c’è nessun motivo per non seguire il vostro cuore”.
Steve Jobs non merita meno rispetto o meno considerazione di altri grandi nomi della cultura e della scienza solo perché era un “semplice” imprenditore, quella dell’imprenditoria non è una categoria che fa necessariamente rima con i concetti di marciume, sotterfugio, sporcizia… Questa è un’idea tutta italiana di cui sarebbe tempo di liberarsi. Jobs non merita meno attenzione d’altri perché la sua arte consisteva nell’inventare device tecnologici a scopo commerciale e non film, libri, dipinti, canzoni o pièce teatrali… Se qualcuno -oggi- vuol giocare a sminuire la portata della rivoluzione innescata da Steve Jobs farà solo la figura di chi vuol essere controcorrente a tutti i costi, di chi antepone l’importanza del mostrare un punto di vista “originale” alla sensatezza del punto di vista.

Tutte le posizioni sono legittime. Le critiche sono sacrosante. Anzi, sono addirittura ovvie. Come le osservazioni in merito all’indifferenza in cui vengono condannati i milioni di morti che -da qualche parte nel mondo- si seppelliscono ogni giorno, o sulla questione dell’accessibilità universale all’innovazione tecnologica (che Apple -come tutte le multinazionali- non ha certo praticato…). Tutte posizioni condivisibilissime. Ma che senso ha affiancare certo discorsi alla morte di un uomo? Perché non parlarne domani, dopodomani e per il resto della vita (e magari fare qualcosa in proposito…) invece di tirar fuori certi argomenti dal cilindro proprio oggi per giocare a quelli che vedono e capisco meglio degli altri quanto accade nel mondo?  Forse è ora di fermarsi un secondo a pensare, semplicemente, se è davvero utile manifestare -oggi- questo genere dissenso, o se non è un camuffato desiderio di protagonismo. Dissenso verso cosa, poi? Verso chi manifesta contrizione per la morte di qualcuno? E cosa c’è di deprecabile? Steve Jobs non era certo Augusto Pinochet. Nessuno sta piangendo un infame dittatore, si sta piangendo un uomo che ha modificato il corso della storia, un abile oratore, un visionario -per molti- un artista. Quando si ricorda la morte di Albert Camus o Michelangelo Merisi ci si concentra forse sul fatto che fossero violente teste calde, o si bada prima di tutto alla perdita che la letteratura e la pittura hanno subito?
Perché non può essere lo stesso per Jobs?
Forse -per il momento- vale la pena provare a capire perché la morte di Jobs faccia tanto rumore e cosa questo rumore ci racconta del mondo in cui viviamo, delle persone, dell’attualità e del prossimo futuro. Analizziamo. Scopriamo. Sforziamoci di comprendere ragioni e implicazioni. Non si tratta di device. Non è per l’iPod o l’iPhone che il mondo piange e ringrazia… È per la favola del successo, per la rivoluzione culturale e tecnologica, per l’ispirazione ricevuta… E per mille altre ragioni che ancora non risultano visibili da così vicino. A banalizzare son buoni tutti, a capire un po’ meno.
Ma se proprio non si ha intenzione di unirsi al cordoglio, basta restare in silenzio.
Da parte mia, un semplice addio, Steve: grazie per aver innescato l’ennesima riflessione. Penserò. E non potrà che farmi bene.

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