domenica 6 ottobre 2013

Mentre gli esuli parlano e raccontano la propria storia, i turisti si divertono con i loro sms. Così va il mondo in Italia.

Oggi, sociologicamente parlando -e da ieri è ufficiale anche in Italia- esistono soltanto due classi: gli esuli e i turisti.
Ieri ho seguito con interesse e curiosità la diretta televisiva del dibattito alla Camera. Quando ha parlato l'onorevole del M5s, Federico D'Incà,  ho avuto la prova definitiva del lancio delle due classi. A differenza dei suoi colleghi, il deputato ha optato per una narrativa mediatica diversa e differente da quella paludosa degli altri deputati, il cui fine consisteva nel sottolineare l'ingresso in aula del concetto di cittadinanza, coadiuvata dall'affermazione -e dalla promozione- dell'esistenza dei social networks, della rete, delle voci e delle opinioni della gente comune e normale. Ha cominciato a declinare -giustamente firmate solo dai nomi propri- le idee dei cittadini italiani, i più disparati, diversi tra di loro, sia nel linguaggio che nella forma. Mano a mano che leggeva, in realtà twittando in parlamento a voce alta, il suo intervento mi ha provocato una connessione sinaptica interiore. Era come leggere un vecchio libro famoso italiano, di grande successo sociale, pubblicato da Einaudi a metà degli anni '60, ignoto a chiunque oggi abbia meno di 45 anni, "Lettere dei condannati a morte della resistenza italiana". L'onorevole D'Incà mi è apparso come un esule in patria che stava parlando a un gruppo di turisti. I membri del governo (dopotutto stava parlando una persona che in quel momento rappresentava il cuore, le idee, le percezioni, le esistenze tangibili di quasi  9 milioni di contribuenti fiscali) erano distratti e ridacchiavano. Il Ministro degli Esteri, Emma Bonino, ovviamente (e inconsciamente) era disturbata nell'accorgersi in un lampo quanto fosse diventata inutilmente vecchia, visto che, all'inizio del suo intervento, Federico D'Incà -molto probabilmente senza neppure esserne consapevole- aveva detto quasi le stesse identiche cose declamate dalla stessa Bonino venti anni prima nella stessa aula (la parola che mi ha evocato questa associazione è stata "partitocrazia")  La nostra ministra, invece di ascoltare con attenzione puntigliosa, visto che ci rappresenta all'estero, si è messa a leggere i suoi sms con una esibizionista disinvoltura forse per manifestare pubblicamente il suo totale disinteresse. La mimica era molto chiara, quella della turista che osserva con bonomia gli accadimenti presso una etnia altra, diversa dalla propria.
Il governo in carica è composto da turisti.
Come i gruppi di stranieri, magari intelligenti, attenti e colti, che vengono in Italia, vanno a Venezia in gondola, visitano la Galleria degli Uffizi a Firenze, passeggiano per i trulli del Salento, fanno una gita in barca tra i faraglioni di Capri, cenano a lume di candela davanti al Colosseo a Roma, e quando vanno via hanno le lacrime agli occhi sostenendo che l'Italia è un paese meraviglioso, unico al mondo, con gente stupenda, pieno di ogni dovizia immaginabile, insostituibile. Lo è. Per i turisti, appunto. Ed è comprensibile.
Se domani andassi in Birmania, etnia e paese di cui so poco o nulla, è quasi sicuro mi comporterei nello stesso modo. Rimarrei affascinato dalle bellezze locali e forse l'anno dopo ci ritornerei pure, senza rendermi conto di come vive la gente, di ciò che accade, di quali siano le contraddizioni reali del posto, ben nascoste dalla pàtina offerta, per l'appunto, ai turisti danarosi.
La nostra classe dirigente politica vive così.
Nel più bel paese del mondo, che visitano di continuo, dalle Alpi al canale di Sicilia, in una continua scorribanda ricca di suggestioni, umori, odori, sapori, con la leggerezza trasognata di chi sta in perenne vacanza, con la consueta bonomia che hanno i ricchi turisti quando commossi osservano le barche dei vecchi pescatori a Camogli, al tramonto. Non sanno, nè a loro interessa, ciò che c'è dietro quelle vite, ciò che accade nelle esistenze dei locali.
Ieri, per una manciata di secondi, il più importante industriale italiano -dal punto di vista politico- cioè Giorgio Squinzi, in quanto Presidente di Confindustria, ha vissuto l'epopea da esule in patria.
Probabilmente a sua insaputa.
Alle ore 13.10 nell'aula del Senato, il premier Enrico Letta aveva dichiarato: "......il governo del fare ha operato con successi tangibili e reali, magari piccoli ma sostanziosi, abbiamo pagato 12 miliardi di euro dei debiti della pubblica amministrazione alle aziende che vantavano i crediti.....".
Alle ore 18.06, mentre il premier parlava alla Camera dei Deputati, una giornalista di Rainews ha intercettato Squinzi all'uscita da un convegno. Senza riferire da dove avesse ricavato la cifra gli ha chiesto conferma. Squinzi ha risposto: "Non mi risulta affatto. Posso dire che al 28 settembre 2013 sono stati versati solo 7 miliardi di euro". Poi si è dileguato proseguendo la sua passeggiata da turista. Poco dopo, il rappresentante dei giovani industriali di Confindustria ha specificato che di quei 7 miliardi soltanto 490.000 euro sono finiti alle aziende. Sono stati versati infatti alle banche che avevano anticipato il credito (con notevole interesse) nel 2011, nel 2012, nel 2013. Il fatto è che il 93% delle 175.900 aziende che hanno ricevuto quei soldi non esistono più. Negli ultimi tre anni sono fallite restituendo la partita Iva, quindi, non risultano più nel còmputo dei contribuenti fiscali.
Sono soldi che sono andati a coprire i cosiddetti "debiti inesigibili in sofferenza" delle banche.
Enrico Letta, quindi, ha detto una bugia? Ha dichiarato una cifra falsa. Non è una novità, lo sapevamo.
Càpita ai turisti.
Qualcuno ha riferito a Squinzi ciò che -in un paese normale- sarebbe potuto anche diventare immediatamente un piccolo bisticcio politico da affrontare subito. Qualche ora dopo (è stata la sua grande giornata da esule) Squinzi ha commentato. "Ma come è possibile che siamo finiti in questa situazione insostenibile? Quando ci daranno un paese normale?". Una frase da esule in patria.
Ma la notte porta consiglio.
Già questa mattina, il nostro bravo Squinzi ha ripreso le sue passeggiate in visita al Colosseo, in gondola a Venezia, in barchetta ai faraglioni, in gita ai trulli. Non sia mai.
Queste sono le due uniche classi esistenti in Italia, oggi: esuli e turisti.
Lavorare per il cambiamento, per la speranza di un rinnovamento, per abbattere un anti-storico e impresentabile sistema feudale di stampo medioevale, significa, oggi, fare il salto da turista a esule.
Assumere dentro di sè la consapevolezza che siamo stati sequestrati da un gruppo di turisti spensierati.
Rinfocolare la propria passione civica, alimentando la nostalgia, per sottrarsi alle suggestioni del marketing turistico.
Fare propria questa discriminante che è molto più attuale del gioco stantio dei bussolotti ideologici, perchè un fascista turista o un comunista turista è, prima di ogni altra cosa, pur sempre solo e soltanto un turista.
Gli esuli in patria sono una categoria altra.
Come si studiava nei libri di storia quando si leggevano le lettere dei fuoriusciti che stavano in Svizzera e chiedevano alle mogli o alle mamme notizie sui vecchi amici, sul cibo, sulle feste tradizionali, con la speranza ferma e decisa di poter un giorno ritornare a casa.
Ascoltando ieri l'originale intervento di Federico D'Incà, a me ha provocato lo stesso effetto.
Frasi lontane che nella mia mente hanno evocato persone anonime nascoste da qualche parte in qualche lontanissimo luogo straniero, e mi sono identificato con quella comunità di esuli, perchè così ci trattano e questo siamo.
Un paese dove la cittadinanza, per intero, è stata sequestrata da un manipolo di volgarissimi turisti.
Chiassosi, spendaccioni, sempre inclini all'allegria collettiva, leggeri e conviviali. Indifferenti.
Questo passa il convento nel Gran Regno d'Ipocritania.

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